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Tirate al mento o tirate al petto?

Quando si parla di allenamento che va a colpire le spalle, le tirate al mento incluse tra gli esercizi per questo gruppo muscolare, oltre ad altri importanti esercizi multiarticolari come la military press.
Upright row
è il nome di una categoria di esercizi mirata a sollecitare sostanzialmente gli abduttori della spalla e gli elevatori della scapola, prevalentemente i deltoidi laterali e i fasci superiori del trapezio (1,2,3). La traduzione letterale è quella di ‘rematore verticale’, tuttavia in italiano vengono usati i nominativi di “tirate al mento” o il meno popolare “tirate al petto” per identificare l’esercizio nelle sue diverse varianti. In questo articolo verrà condotta un’analisi approfondita di questa classe di esercizi per poter estrapolare alcune conclusioni utili nella pratica.

Articolo a cura di Lorenzo Pansini

Cenni anatomici e biomeccanici

L’upright row, nelle sue varie, forme è un esercizio multi-articolare a catena cinetica aperta (OKC) che prevede la mobilizzazione delle articolazioni della spalla, del gomito e della scapola. Durante la fase positiva, tutte le varianti sono accomunate dall’abduzione della spalla con omero intra-rotato, dall’eventuale extra-rotazione dell’omero, dalla flessione del gomito e dall’elevazione e rotazione esterna delle scapole (1). Ad ognuna di queste articolazioni fa capo una serie di fasci muscolari con il compito di consentire la rotazione.

Per quanto riguarda l’abduzione della spalla in intra-rotazione il compito è prevalentemente del deltoide laterale e del sovraspinato, e minor misura dagli altri componenti della cuffia dei rotatori e del deltoide. L’extra-rotazione dell’omero compete soprattutto a piccolo rotondo, sottospinato e sovraspinato. L’elevazione scapolare è principalmente a carico dei fasci superiori del trapezio e dell’elevatore della scapola. La flessione del gomito avviene ad avambraccio ruotato in posizione neutra (0°), ed è quindi probabile che il brachioradiale e il brachiale siano più reclutati rispetto al bicipite brachiale e al pronatore rotondo.

Sicurezza del upright row

L’upright row, nella forma di “tirata al mento”, è un esercizio che impone l’elevazione (abduzione) dell’omero mantenuto in intra-rotazione oltre l’altezza delle
spalle. Tuttavia mantenere l’omero intra-rotato oltre questa soglia non rispetta la normale fisiologia del movimento della spalla, provocando inevitabilmente il cosiddetto
impingement subacromiale (1). Si tratta di un conflitto tra i tirate al mento bilancieretessuti molli (tendini, borsa) e l’arcata subacromiale, il quale viene esacerbato se l’omero viene mantenuto ruotato internamente. Sapendo che la spalla è una delle principali articolazioni che subisce infortuni in palestra (1), tali considerazioni sono importanti. Alcuni studi di osservazione hanno trovato una maggiore incidenza di impingement nei soggetti che eseguono regolarmente le tirate al mento (4), convincendo ancora sulla necessità di modificare la biomeccanica dell’esercizio.

Questo conflitto può essere facilmente evitato, dato che esso si presenta quando l’omero viene elevato (abdotto) oltre i 70-90° (1). Arrestare il movimento di elevazione poco al di sotto dell’altezza delle spalle – a circa 80° – è il principale accorgimento per prevenire l’impingement (1), ma se ciò viene rispettato, l’esercizio perde il nominativo di “tirata al mento”. Quest’ultima variante è infatti contraddistinta dall’elevazione dei gomiti all’incirca all’altezza delle orecchie, un livello dove i fasci superiori del trapezio (e il resto degli elevatori scapolari) esercitano un ruolo ancora più importante per continuare ad elevare la scapola. Questa modifica esecutiva rende l’upright row una “tirata al petto”, e non più “al mento”.

Tirate al mento vs tirate al petto

L’upright row è stato analizzato in letteratura, ed è stato concluso che per renderlo sicuro esso debba essere modificato rispetto alla biomeccanica più nota tipica della variante “al mento” (1). Essenzialmente l’omero dovrebbe essere elevato ad un livello non oltre l’orizzontale (abduzione fino a 80-90°), modifica che riduce il range di movimento (ROM) e rende l’esercizio una “tirata al petto”.

Le differenze tre le due varianti sono evidenti. Le “tirate al mento” sarebbero teoricamente in grado di coinvolgere in maniera ancora più rilevante il trapezio superiore e gli altri elevatori scapolari. Questo perché maggiore è l’elevazione dell’omero oltre il livello delle spalle, maggiore è l’elevazione scapolare, e maggiore è il ROM delle scapole e dei suoi elevatori. Lo svantaggio è che viene sacrificata la sicurezza articolare della spalla per stimolare un gruppo di muscoli che può essere sollecitato con altri movimenti normalmente innocui: esercizi come le scrollate o le stesse “tirate al petto” sono eccellenti per attivare il trapezio superiore (2) senza il minimo rischio di impingement.

Le tirate al petto, al contrario, ripropongono una biomeccanica della spalla del tutto analoga a quella delle alzate laterali, contenendo l’elevazione delle scapole e focalizzando un maggiore lavoro sui deltoidi laterali (1). Anche in questo caso il trapezio superiore viene altamente coinvolto (2,3), anche al pari delle scrollate, ma probabilmente meno delle alzate laterali (2). Nelle tirate al petto viene compiuta un’abduzione dell’omero in intra-rotazione da circa 0° a 90°, risultando di fatto come la risposta multi-articolare alle alzate laterali, con la differenza che vengono coinvolti anche i flessori del gomito. Sotto questo aspetto le “tirate al petto” necessitano di una rivalutazione per l’importanza che rivestono come esercizio ‘fondamentale’ o ‘base’ per la porzione laterale dei deltoidi.

Larghezza dell’impugnatura nelle tirate

impugnatura presa tirate al mentoNelle tradizionali tirate al mento la larghezza dell’impugnatura sul bilanciere è normalmente piuttosto stretta, in prossimità del livello delle spalle o leggermente di più chiusa (close grip upright row). Nella variante “al mento” ciò ha senso, perché più la presa è stretta e più facilmente i gomiti riescono ad essere elevati oltre le spalle. La presa stretta ha anche l’effetto di aumentare il coinvolgimento dei flessori del gomito (3), dato il maggiore range di movimento (ROM) di questa articolazione. Sapendo che le tirate al mento sono ritenute inadatte per mantenere l’integrità articolare della spalla, la larghezza della presa ottimale sulle tirate “al petto” può essere differente. 

Uno studio ha confrontato gli effetti di diverse ampiezze della presa sulle tirate “al petto”: il 50%, il 100% e il 200% dell’ampiezza delle spalle. Si è osservato che la presa più larga attivasse di più i deltoidi laterali e posteriori, e il trapezio superiore, mentre riducesse l’attivazione del bicipite brachiale (3). Non sono ben chiare le cause della differente attivazione dei deltoidi e del trapezio dato che la traiettoria articolare della spalla e delle scapole dovrebbe essere analoga, ma è possibile che ciò sia dovuto ad un aumento del momento meccanico sull’articolazione della spalla (3).

Nonostante altri autori abbiano più spesso proposto una presa stretta anche per la variante “al petto” (1,2), sembra che la presa larga (wide grip upright row) sia migliore se il fine è quello di coinvolgere maggiormente i deltoidi postero-laterali. Un riferimento per poter individuare una larghezza della presa ottimale è quello di verificare che nel picco della fase concentrica – con omero orizzontale – il gomito formi un angolo di circa 90° e l’avambraccio si trovi in prossimità del perpendicolare al suolo.

Flessione del busto

Nelle tirate al petto può essere suggerito il mantenimento del busto in posizione leggermente flessa mediante una lieve flessione dell’anca, di circa 20°. Specialmente nella variante con bilanciere questo ha il vantaggio di permettere una traiettoria dell’attrezzo senza ostacoli, dato che il busto verticale interferirebbe con la risalita del bilanciere. Esistono però altri benefici legati alla leggera flessione del busto, la quale si ricorda, deve avvenire mediante la flessione dell’anca mantenendo invece l’arco lombare in posizione fisiologica.

I benefici sono essenzialmente legati al fatto che il busto leggermente flesso chiama in causa in maniera più importante diversi muscoli della catena posteriore, soprattutto gli erettori spinali e i deltoidi posteriori. Stimolare la catena posteriore ha un’utilità per mantenere l’equilibrio posturale.

Nonostante il deltoide posteriore non venga normalmente citato come abduttore della spalla, esso può assumere un ruolo più importante in questo movimento se il busto viene flesso, minimizzando l’attività del deltoide anteriore. Ciò avviene perché flettendo il busto l’abduzione della spalla si verifica su un piano alterato a due dimensioni, un piano di lavoro in cui i deltoidi posteriori subiscono una maggiore attivazione.

La leggera flessione del busto può servire anche per ridurre il grado di intra-rotazione dell’omero. In posizione eretta, se gli avambracci sono direzionati in perpendicolare verso il basso l’omero raggiunge il massimo grado di rotazione interna – ovvero 90° – un livello poco fisiologico. Se il busto viene mantenuto leggermente flesso, l’omero raggiunge un minore grado di intra-rotazione anche se l’avambraccio viene ugualmente mantenuto perpendicolare al suolo.

Tirate con i manubri o al cavo basso

tirate al mento manubriL’esercizio del upright row può essere praticato con alcune variazioni. La prima è l’esecuzione con i manubri piuttosto che col bilanciere (2). I manubri rendono l’esercizio ad arti indipendenti tra loro. L’esecuzione ad arti indipendenti (possono essere usati anche gli elastici) permette che le braccia siano svincolate, rendendo più facile scegliere il direzionamento degli avambracci. Se il fine è anche quello di minimizzare l’attività dei flessori del gomito, l’avambraccio dovrebbe essere rivolto sempre in basso e perpendicolare al suolo, rimanendo passivo durante il movimento. Come ulteriore vantaggio, è possibile che le varianti svincolate abbiano un miglior impatto sulle articolazioni, anche se la forza può essere penalizzata.

Un’ulteriore variante del upright row consiste nell’esecuzione al cavo basso con la barra. Il cavo impone l’indipendenza dalla forza di gravità, facendo in modo che la linea della resistenza sia rappresentata dal cavo stesso, e non più da una linea immaginaria perpendicolare al suolo che traziona verso il basso. Ciò significa che la leggera flessione del busto come suggerita per i pesi liberi sia superflua, in quanto basterebbe arretrare di un passo il corpo rispetto all’origine del cavo per ottenere una simile traiettoria su due dimensioni. Se il corpo viene molto allontanato dalla carrucola l’esercizio assume delle caratteristiche ibride tra le “tirate al petto” e il rematore a gomiti larghi, enfatizzando l’attivazione dei deltoidi posteriori e del trapezio mediale e romboidi.

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